La ripresa della economia e del commercio globale si presenta con caratteri di discontinuità, selettività e incerta produzione di nuovi posti di lavoro. In Italia – e nel Mezzogiorno in particolare – essa sollecita processi di aggiustamento competitivo delle attività produttive di beni e di servizi. Le attività manifatturiere sono impegnate in processi di riorganizzazione, specializzazione, innovazione e internazionalizzazione, allo scopo di soddisfare i cambiamenti nei consumi interni e di raggiungere i nuovi consumatori dei Paesi emergenti. L’agricoltura deve superare la frammentazione delle unità fondiarie e integrarsi con le attività di prima trasformazione e con la distribuzione. La logistica può crescere con gli investimenti nelle infrastrutture tecnologiche e il potenziamento delle reti tradizionali. I servizi di cura, al pari di quelli sanitari ed educativi, si sviluppano ove la regolazione pubblica riconosce i criteri di sussidiarietà, differenziazione e concorrenza. Il turismo esprime le sue straordinarie potenzialità occupazionali – per giovani, donne e Mezzogiorno – solo in un contesto regolato che espelle le attività marginali e incoraggia la crescita organizzativa in termini qualitativi così come quantitativi. L’impiego delle tecnologie potrà creare nuove e più qualificate opportunità di lavoro ma anche pericoli di minore occupazione in particolare per la componente femminile. Le piccole imprese, la cooperazione, il mondo delle professioni e il lavoro autonomo sono soggetti – non da oggi – a profonde trasformazioni che richiedono una regolazione semplificata e adattabile, coerente con le esigenze di riqualificazione. I mutamenti nei processi produttivi e negli ambienti di lavoro contribuiscono alla nascita di nuovi lavori e di nuove professioni. Evidente è il disallineamento attuale e ancor più prospettico tra la domanda e l’offerta di lavoro in assenza di azioni volte ad avvicinare le competenze richieste a quelle offerte. Determinante è, ovunque, la disponibilità di professionalità corrispondenti ai nuovi processi produttivi, così come un moderno sistema di relazioni di lavoro in grado di guidare le sempre più frequenti transizioni occupazionali e professionali e sostenere i necessari cambiamenti. Condizionanti per la crescita sono il declino demografico, i mutamenti dei flussi migratori, la contrazione riflessiva e la nuova composizione dei consumi interni, l’espansione del terziario e il vincolo di finanza pubblica imposto dalla diffidenza dei mercati finanziari per il debito sovrano quando non accompagnato da una rigorosa disciplina di bilancio. In questo difficile contesto, il presente piano triennale – in coerenza con i valori e la visione del Libro Bianco sul futuro del modello sociale – vuole concorrere a promuovere crescita economica con occupazione aggiuntiva e di qualità attraverso:
a) l’emersione della economia informale e una efficace azione di contrasto dei lavori totalmente irregolari;
b) la maggiore produttività del lavoro attraverso l’adattamento reciproco delle esigenze di lavoratori e imprese nella contrattazione di prossimità, le forme bilaterali di indirizzo e gestione dei servizi al lavoro, l’incremento delle retribuzioni collegato a risultati e utili della impresa;
c) la occupabilità delle persone attraverso lo sviluppo delle competenze richieste dal mercato del lavoro, con particolare attenzione ai giovani e alle donne.
Gli obiettivi di una società attiva e di una economia maggiormente competitiva convergono nell’innalzamento del patrimonio di professionalità e competenze. Nella possibilità per ciascuna persona, per tutte le persone, di accedere a un lavoro dignitoso e di mantenerlo o, auspicabilmente, migliorarlo attraverso percorsi di formazione e di riqualificazione professionale. L’inclusione nel mercato del lavoro costituisce carattere fondamentale di quella economia sociale di mercato che il Governo si è impegnato a promuovere.
In Italia si è registrata per decenni una cronica bassa occupazione in proporzione alla crescita economica che è stata testimoniata soprattutto dalla abnorme dimensione – nel confronto con i Paesi competitori – del lavoro sommerso e degli investimenti in tecnologia dei processi produttivi finalizzati a contenere il bisogno di persone al lavoro. Donne e giovani sono risultati i più penalizzati da questa situazione come indicano i confronti internazionali sui tassi di partecipazione e occupazione.
La legge Treu e la riforma Biagi, con l’ulteriore evoluzione legislativa e contrattuale nel trascorso biennio, hanno prodotto una prima, significativa, liberazione del lavoro dai fattori che ne hanno lungamente inibito lo sviluppo quantitativo e qualitativo. Lo indicano, prima della crisi, il costante incremento dei tassi di occupazione (oltre tre milioni e mezzo di posti di lavoro aggiuntivi in meno di un decennio) e la drastica riduzione di un tasso di disoccupazione fino ad allora sistematicamente in doppia cifra.
Le nuove sfide competitive e la strategia di uscita dalla crisi internazionale sollecitano ora il definitivo completamento di questo percorso. Liberare il lavoro significa liberare i lavori. Incoraggiare nelle imprese l’attitudine ad assumere e a produrre lavori di qualità. A cogliere ogni opportunità di crescita, ancorché incerta. A realizzare, attraverso il metodo della sussidiarietà orizzontale e verticale – e quindi il flessibile incontro tra le parti sociali nei luoghi più prossimi ai rapporti di lavoro – le condizioni per more jobs, better jobs. Il piano per il lavoro è definito in continuità con le azioni intraprese nel biennio trascorso e in coerenza con il primario obiettivo della stabilità di finanza pubblica. Questo impedisce incrementi strutturali e imponderabili della spesa corrente che ipotecherebbero un futuro oggettivamente incerto. Per altro verso esso assume la regola di Marco Biagi secondo la quale non esiste alcun “incentivo finanziario utile a compensare un disincentivo normativo” di legge o di contratto.
Cosa abbiamo fatto, cosa faremo: le azioni nella crisi Nel primo biennio di attività – nel contesto della grande crisi globale – il Governo ha salvaguardato la base occupazionale e la coesione sociale avvalendosi del dialogo sociale e istituzionale, che ha visto convergere su importanti e tempestive decisioni Governo, Regioni e parti sociali. Le numerose iniziative assunte sono in prevalenza riconducibili a tre linee di azione. 1. Liberare il lavoro dalla oppressione fiscale, burocratica e formalistica La semplificazione e la certezza del quadro regolatorio incentivano le assunzioni e aiutano a contrastare fenomeni diffusi di irregolarità. Vi concorre l’istituto dell’interpello introdotto dalla legge Biagi che, nel biennio trascorso, ha dato luogo a numerosi chiarimenti del Ministero del lavoro uniformando i comportamenti ispettivi e orientando le attività delle imprese e dei loro consulenti. Con una direttiva ai servizi ispettivi del settembre 2008 è stata reindirizzata e riqualificata l’attività di vigilanza verso la prioritaria repressione del lavoro sommerso e la contestazione di violazioni sostanziali rispetto a quelle puramente formali. Sono stati rimossi i vincoli introdotti nella precedente legislatura ripristinando la legge Biagi, ovvero reintroducendo e ampliando la regolazione di tipologie contrattuali che possono facilitare l’accesso al lavoro, l’emersione di spezzoni lavorativi, l’occupabilità dei giovani (contratto a termine, somministrazione di lavoro, lavoro intermittente, buoni lavoro o voucher, apprendistato con formazione aziendale, ammissibilità del cumulo tra lavoro e pensioni). Sono state semplificate la trasmissione periodica dei dati retributivi e contributivi (uniemens) e la gestione documentale dei rapporti di lavoro (introduzione del libro unico del lavoro, abrogazione della procedura formalistica sulle dimissioni), agevolando una gestione del personale e dei tempi di lavoro maggiormente coerente con una economia terziaria e sempre meno fordista (esternalizzazioni, appalti, lavoro a tempo parziale, disciplina flessibile dell’orario di lavoro in coerenza con la normativa europea). Sono stati introdotti correttivi al Testo Unico di sicurezza e tutela della salute nei luoghi di lavoro. Fatta salva la garanzia dei livelli di tutela esistenti, si sono poste le condizioni per superare una visione formalistica e burocratica della sicurezza a favore di una cultura promozionale e per obiettivi tale da incidere in modo concreto sui contesti organizzativi d’impresa. La necessaria riduzione della pressione fiscale sul reddito da lavoro è stata avviata emblematicamente già nel primo Consiglio dei Ministri della Legislatura con il provvedimento che ha sottratto alla tagliola della progressività, attraverso una tassazione agevolata e definitiva, la componente del salario espressione di una maggiore produttività del lavoro (straordinario e premi aziendali). Nel secondo anno la tassazione agevolata si è concentrata, nel contesto della crisi, sul reddito variabilmente connesso agli indicatori positivi della impresa.
L’onere relativo alle misure di tassazione agevolata è stato di circa 500 milioni su base annua interessando oltre un milione di lavoratori con i trattamenti retributivi più bassi. La stessa “spesa fiscale”, spalmata su tutti i redditi di lavoro, avrebbe dato luogo a benefici impercettibili, non avrebbe tutelato i lavoratori con i salari più bassi e non avrebbe stimolato la maggiore produttività del lavoro e la riforma della contrattazione collettiva. Si apre ora il “cantiere” per una riforma generale del sistema fiscale correlata al completamento del federalismo istituzionale e ai grandi cambiamenti intervenuti nella produzione e composizione della ricchezza. L’obiettivo è uno spostamento del prelievo dalle persone che lavorano e producono alle cose e ai consumi, i cui tempi e modi saranno necessariamente influenzati dagli andamenti dei mercati finanziari e dalle condizioni di finanza pubblica. In considerazione della sperimentazione effettuata, e degli obiettivi inerenti la giusta remunerazione del lavoro e l’incremento della sua produttività, sarà gradualmente ampliata la platea dei lavoratori beneficiari di una riduzione contributiva e di una tassazione agevolata dei redditi correlati a criteri di maggiore competitività delle imprese, inclusi gli utili di bilancio, sulla base della contrattazione aziendale o territoriale. 2. Liberare il lavoro dal conflitto collettivo e individuale La riforma degli assetti contrattuali, incoraggiata dalla tassazione agevolata del salario variabile, è finalmente intervenuta con l’accordo del 22 gennaio 2009, dopo oltre un decennio di tentativi. Essa si è caratterizzata per una significativa devoluzione di importanti contenuti ai livelli più vicini al concreto svolgersi del rapporto di lavoro. Ne è già derivato un significativo cambiamento nelle relazioni industriali. I contratti collettivi nazionali sono stati rinnovati con maggiore semplicità e tempestività. Hanno trovato nuovo impulso le esperienze bilaterali con le quali le parti organizzano, in sussidiarietà, servizi e apprestano moderne tutele volte a dare qualità al lavoro e nuove sicurezze ai lavoratori. Dalla previdenza alla sanità complementare, dalla salute e sicurezza alla formazione, dal collocamento alla stessa integrazione del reddito in caso di inattività, le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro hanno sviluppato uno spirito cooperativo e una attitudine a presidiare i settori produttivi e i mercati locali del lavoro che potranno dare frutti crescenti per le persone e per le imprese. È in questo contesto che si è avviato il tavolo di dialogo tra Governo e parti sociali sulla partecipazione dei lavoratori ai risultati e agli utili aziendali. L’avviso comune del 9 dicembre 2009 riconosce come l’economia della partecipazione sia la soluzione che meglio concilia la solidarietà tipica del modello sociale europeo con l’efficienza richiesta dal mercato globale. Il “Codice della partecipazione”, redatto dal Governo per agevolare l’attività del “tavolo”, orienterà ora il libero confronto tra le parti sociali per ulteriori sperimentazioni e per la verifica di eventuali novazioni legislative.
Il disegno di legge sulla regolazione dello sciopero nei trasporti si propone di liberare non solo gli utenti dalle limitazioni alla loro mobilità determinate dal solo “effetto annuncio” di gruppi minoritari, ma anche le organizzazioni più rappresentative dalla concorrenza sleale di questi ultimi. A una “Commissione per le relazioni di lavoro”, che prenderà il posto della attuale Commissione di garanzia, verrà affidato il compito di certificare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali affinché le relazioni industriali si svolgano secondo modalità libere, informate e responsabili, prevenendo e isolando gli accordi prodotti solo da organizzazioni manifestamente minoritarie. La disciplina in materia di strumenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro – sostenuta dall’avviso comune del 9 marzo 2010 – ha infine lo scopo di deflazionare l’abnorme contenzioso (circa 1,2 milioni di cause pendenti e un flusso annuo di 400 mila cause la cui durata oscilla tra 5 e 7 anni) attraverso una libera possibilità in più per lavoratori e imprese. La tempestività della risoluzione della controversia conviene a tutti, ai lavoratori in primo luogo. Sono in ogni caso le parti sociali a dover regolare i modi con cui utilizzare i nuovi istituti adattandoli ai diversi contesti e al mutare nel tempo dei rapporti di lavoro. Un clima maggiormente cooperativo non può che aumentare la propensione ad assumere, la produttività del lavoro, la qualità della vita nel lavoro.
3. Liberare il lavoro dalla insicurezza La caduta della domanda globale di beni come di servizi ha colpito, in modo particolare, le economie esportatrici come quella italiana. È stata una crisi della domanda non della offerta. L’accordo con le Regioni sugli ammortizzatori sociali del 12 febbraio 2009 e i ricorrenti accordi con le parti sociali hanno consentito di non disperdere il capitale umano delle imprese e sostenere il reddito delle famiglie e di tutte le categorie di lavoratori compresi quelli atipici e temporanei. La tenuta occupazionale è stata decisamente migliore rispetto alla media degli altri Paesi. Lo hanno riconosciuto anche le istituzioni internazionali e il G20 di Washington. È stata pertanto giusta la risposta in termini di protezione del reddito collegata alla continuità del rapporto di lavoro attraverso l’estensione straordinaria della cassa integrazione e l’incentivazione dei contratti di solidarietà. Si è garantita la sopravvivenza della base produttiva e occupazionale in modo da conservarle pronte ad agganciare la ripresa. La scelta opposta, da alcuni suggerita, di un rafforzamento della indennità di disoccupazione e di una abolizione della cassa integrazione, avrebbe al contrario incoraggiato la risoluzione di molti rapporti di lavoro e il rattrappimento della base produttiva. L’intervento di manutenzione del quadro legale non è stato marginale. Il sistema degli ammortizzatori è stato esteso a tutti i settori produttivi e a tutte le tipologie di lavoro dipendente compresi gli apprendisti e gli interinali. Una tutela una tantum è in corso di sperimentazione per i collaboratori a progetto in regime di monocommittenza in caso di fine lavoro.
Il ricorso a strumenti straordinari di protezione del reddito è necessariamente destinato a protrarsi nel prossimo periodo in attesa del ripristino – previsto nel “collegato lavoro” – della delega al riordino degli ammortizzatori sociali predisposta dal precedente Governo e della approvazione del disegno di legge delega relativo allo “Statuto dei lavori”. La recente crisi ha confermato l’importanza di poter disporre di un assetto adattabile, flessibile e responsabile degli ammortizzatori, capace di rispondere ai repentini cambiamenti del mercato del lavoro e coerente con i vincoli di finanza pubblica. Nel progetto di riforma derivante dalla combinazione delle deleghe dello “Statuto dei lavori” e del “collegato lavoro” restano fermi i due criteri che hanno positivamente contraddistinto il nostro attuale sistema. Quello di una necessaria base assicurativa – obbligatoria o volontaria – per il finanziamento delle erogazioni. E, come conseguenza di questa natura assicurativa, quello di un congruo periodo di lavoro e di versamenti per potervi accedere. Rimane altresì ferma l’articolazione del sistema su più “pilastri”. Da una unica indennità nel caso di interruzione del rapporto di lavoro a forme di sostegno del reddito in costanza di rapporto che possono essere modulate nei diversi settori o nelle diverse dimensioni d’impresa sulla base di contribuzioni obbligatorie e/o volontarie delle imprese e dei lavoratori. Una forma di contribuzione obbligatoria potrà sostenere anche una indennità di “reinserimento” per i collaboratori in regime di mono-committenza, che dovrà essere tarata sulla base della sperimentazione in corso. Al potenziamento e alla estensione degli ammortizzatori sociali si è accompagnata una sostanziale revisione delle logiche di funzionamento del sistema. Incentivando, per un verso, il concorso di risorse private messe a disposizione dalla bilateralità e dai fondi interprofessionali. Condizionando, per l’altro verso, l’erogazione del trattamento di sostegno al reddito alla preventiva dichiarazione di immediata disponibilità a un lavoro congruo o a un percorso di formazione. È prossimo l’avvio di un nuovo sistema istituzionale rivolto a facilitare la ricerca di lavoratori e di opportunità di lavoro sulla base della evoluzione tecnologica intervenuta e della pluralità di luoghi di incontro nella rete debitamente autorizzati. In particolare sarà agevolato l’accesso dei datori di lavoro, per il tramite dei servizi competenti, alla banca dati dei lavoratori beneficiari di sussidi e come tali portatori di una “dote” finanziaria nel caso di assunzione. È questa anche la condizione per rendere effettiva la sanzione della perdita del sussidio per coloro che rifiutino una offerta di lavoro “congrua” o una opportunità di riqualificazione professionale. In vista di una ripresa selettiva sono stati previsti sostegni per gli intermediari che agevolino l’assunzione di lavoratori svantaggiati e sono stati potenziati gli incentivi economici per l’assunzione di lavoratori che percepiscono sussidi pubblici. È stato altresì previsto un bonus per il rientro in azienda di lavoratori sospesi al fine di svolgere attività formativa in assetto produttivo.
Con l’accordo tra Governo, Regioni e parti sociali del 17 febbraio 2010 sono state adottate innovative linee guida per riorientare le ingenti risorse per la formazione (pari a circa 2,5 miliardi di euro) quale principale leva per l’adattabilità e la occupabilità delle persone. Per affrontare le maggiori criticità del mercato del lavoro italiano – e cioè i bassi tassi occupazionali di giovani e donne – il Governo ha infine avviato due piani di azione denominati “Italia 2020” che costituiscono parte integrante del presente Piano. Il cuore delle azioni in favore della occupazione femminile è la politica di conciliazione che si realizza attraverso la rimodulazione dell’orario di lavoro – per la quale è stato richiesto un avviso comune alle parti sociali – e la promozione dei servizi di cura alla infanzia con particolare riguardo ai nidi familiari. Per quanto riguarda i giovani, il piano di azione promuove soprattutto la loro occupabilità attraverso l’integrazione tra apprendimento e lavoro, in quanto la loro esclusione dal mercato del lavoro appare connessa al disallineamento tra le competenze richieste dal sistema produttivo e le deboli capacità acquisite in percorsi educativi troppo lunghi o troppo brevi e in ogni caso rigidamente separati dalla esperienza lavorativa. L’immigrazione infine, più esposta al rischio del lavoro irregolare e della disoccupazione di lungo periodo, merita una specifica attenzione nelle politiche attive per l’emersione e l’occupabilità secondo le linee del Piano nazionale per l’integrazione che costituiscono, come i piani sopra citati, parte integrante di questo documento. Cosa abbiamo fatto, cosa faremo: le priorità nella ripresa Il percorso sin qui intrapreso sarà completato nel prossimo triennio nei termini già esposti e secondo tre ulteriori linee di azione. 1. Liberare il lavoro dalla illegalità e dal pericolo Liberare il lavoro dalla illegalità e dal pericolo significa potenziare in termini qualitativi le attività di vigilanza orientandole alla repressione delle violazioni sostanziali più gravi. A partire da quelle che costituiscono, specialmente in settori a forte manualità e in contesti territoriali più deboli, un pericolo immanente per l’incolumità della persona che lavora. È doveroso e possibile l’obiettivo della “tolleranza zero” per le forme peggiori di sfruttamento del lavoro secondo un metodo di selezione nel più ampio fenomeno delle irregolarità e una combinazione di attività istituzionali e sociali. L’attività ispettiva deve sempre più divenire sintesi sinergica delle azioni programmate dai diversi organi di vigilanza – unitamente agli interventi delle forze di polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza – e attuate in modo coordinato, e in linea di principio uniforme, a livello territoriale, anche in considerazione delle specifiche realtà e delle caratteristiche peculiari delle singole aree e dei diversi distretti economici. L’impegno del Governo è quello di portare a compimento la piena integrazione operativa dei servizi ispettivi e delle forze armate e di polizia anche attraverso l’impiego di tecnologie condivise e d’avanguardia che consentano collegamenti informatici e controlli incrociati. La collaborazione con l’arma dei carabinieri, che oggi già si realizza attraverso un suo nucleo specializzato, potrà avvalersi in termini più sistemici – a partire dai territori più esposti alle peggiori patologie – delle stazioni territoriali che costituiscono un presidio capillare nei territori, fonte privilegiata di informazioni e di percezioni su quanto in essi realmente accade. La collaborazione con la guardia di finanza, già avviata positivamente nell’ambito del piano straordinario di vigilanza nel Mezzogiorno, potrà consentire l’incrocio di informazioni essenziali per selezionare gli obiettivi. L’evoluzione della attività ispettiva dovrà consistere nell’approfondimento del lavoro di intelligence a monte delle attività operative affinché il numero inesorabilmente limitato di queste, in rapporto al numero complessivo delle imprese, sia tuttavia orientato verso obiettivi mirati in quanto ragionevolmente luogo delle più gravi violazioni (lavoro nero, sicurezza sui luoghi di lavoro, corretta qualificazione dei contratti di lavoro, false prestazioni nel settore agricolo e fenomeni di elusione contributiva, appalti illeciti, lavoro irregolare degli stranieri, lavoro minorile, inserimento lavorativo dei disabili). In un contesto di programmazione delle ispezioni risulterà più agevole – e decisiva – la messa a regime di programmi straordinari di vigilanza, alcuni in parte già avviati come il piano straordinario per i settori della edilizia e della agricoltura nel Mezzogiorno, correlati con lo sviluppo del controllo sociale degli organismi bilaterali a livello settoriale e territoriale. Le aree di intervento prioritario dovranno riguardare, oltre alle due citate, l’economia turistica e i servizi connessi alla logistica e ai trasporti, settori nei quali la diffusa irregolarità dei rapporti di lavoro costituisce un freno all’ammodernamento. Liberare il lavoro dalla illegalità e dal pericolo impone anche di semplificare e razionalizzare il quadro legale. Dare maggiore certezza agli operatori economici e piena effettività alle norme di legge e contratto collettivo. Valorizzare una tecnica sussidiaria di regolazione dei rapporti di lavoro che possa consentire di tener conto dei marcati differenziali territoriali e delle peculiarità di ciascun settore produttivo. Superare, in definitiva, quella concezione minimalista e semplificante che ha sin qui caratterizzato – con esiti non a caso modesti – le politiche pubbliche di contrasto e repressione del lavoro nero. Come se si trattasse di un fenomeno tutt’altro che complesso e articolato. Senza cioè alcuna distinzione tra ciò che in esso vi è di realmente patologico e di sfruttamento della persona che lavora, come tale da sanzionare pesantemente, e ciò che, invece, è illegale solo perché non trova adeguata rappresentazione nel quadro giuridico-formale di regolazione dei rapporti di lavoro. Importante – come dimostra il successo registrato in agricoltura, nel Nord del Paese – sarà la piena messa a regime del buono prepagato o voucher che consente di far emergere importanti sacche di lavoro sommerso la cui regolarizzazione garantisce tutele (previdenziali, assicurative e retributive) ai lavoratori, costi e oneri agevolati per le imprese e la successiva tracciabilità dei percorsi dei datori di lavoro come dei lavoratori. Essenziale appare, in particolare nel Mezzogiorno, la promozione di organismi bilaterali istituiti dalle organizzazioni rappresentative degli imprenditori e dei lavoratori agricoli su quella base provinciale che corrisponde peraltro all’ambito della contrattazione collettiva decentrata. Ci aiuta l’esempio dell’edilizia. Un settore caratterizzato dalla frammentazione delle imprese e dei rapporti di lavoro rispetto al quale le parti sociali hanno saputo organizzare insieme servizi che tutelano le persone e sostengono il tessuto produttivo. Lo stesso vale per l’economia turistica che richiede l’emersione di molti dei lavori che a essa afferiscono non solo allo scopo di garantire le doverose tutele, ma anche con il fine di garantire quella minima base di efficienza sulla quale soltanto può realizzarsi uno sviluppo organizzativo. Le caratteristiche diffuse e frammentate delle attività economiche che concorrono alla economia turistica richiedono, al pari di quanto avviene in edilizia e, seppure in forme meno strutturate, in agricoltura, il concorso del controllo sociale e l’adozione di un più marcato criterio di sussidiarietà verso le funzioni di governo del mercato del lavoro che possono essere esercitate congiuntamente dalle organizzazioni rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro. Dal collocamento, ai flussi migratori stagionali, alla gestione dei voucher, alla formazione, alla salute e sicurezza nel lavoro, alla stessa integrazione del reddito nei periodi di inattività, gli enti bilaterali possono rappresentare in sussidiarietà un affidabile complemento delle funzioni pubbliche e delle stesse attività di vigilanza. Si tratta di sostituire intermediari parassitari, spesso legati alla criminalità organizzata, con sobrie ed efficienti attività di mediazione sociale non profittevole garantite dalla rappresentatività degli attori sociali. Gli enti bilaterali, che andranno irrobustiti e sostenuti, potranno fornire anche utili elementi conoscitivi in ordine ai fenomeni di maggiore criticità presenti sul territorio, fornendo così agli enti pubblici competenti elementi per programmare e gestire in modo più puntuale ed efficace le diverse tipologie di intervento e anche svolgere, in sinergia con le associazioni di settore, una azione di ampia sensibilizzazione delle aziende operanti negli stessi settori in ordine agli istituti giuridici utilizzabili per far emergere, da un lato, e contrastare, dall’altro lato, forme di lavoro irregolare e sommerso. Decisiva è, dunque, la funzione di “controllo sociale” che possono svolgere gli enti bilaterali, in grado di orientare operativamente l’attività di verifica da parte degli organismi pubblici come già avviene per il DURC (documento unico di regolarità contributiva) e come anche previsto, sul piano del diritto positivo, dalla recente modifica del Testo Unico di sicurezza e tutela della salute nei luoghi di lavoro che introduce la patente a punti in edilizia e il sistema di qualificazione delle imprese. Le grandi organizzazioni rappresentative della cooperazione italiana possono svolgere una significativa funzione ai fini della emersione del lavoro irregolare non soltanto per la loro capacità diffusa di monitorare e segnalare le forme di cooperazione spuria, ma anche per la loro capacità di promuovere modelli di cooperazione in grado di organizzare in termini trasparenti le attività lavorative che, in modo dipendente o autonomo, prestano servizi socio-sanitari e di assistenza domiciliare. Come in passato la cooperazione ha consentito l’emersione e lo sviluppo di attività tradizionalmente irregolari, tra cui il facchinaggio, così oggi essa può concorrere alla diffusione organizzata dei nidi familiari o alla regolarizzazione e qualificazione delle badanti. Tra le priorità delle azioni ispettive e di vigilanza assolutamente centrale è, infine, quella in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Tale attività non è solo quella di natura prettamente tecnica volta alla verifica del rispetto della normativa prevenzionistica ma, come dimostrano i più recenti provvedimenti in materia di sospensione della attività imprenditoriale e di DURC, anche quella avente ad oggetto tutta la disciplina di gestione del rapporto che comunque incide sul profilo della integrità psico-fisica del lavoratore. Preso atto che, in tale ambito, vige il riparto delle competenze legislative e amministrative che vedono nelle Regioni e nella amministrazione statale i due interlocutori istituzionali del mondo datoriale, l’obiettivo da realizzare è quello del superamento di tale tradizionale “dualismo” in favore di una più integrata e sinergica azione di controllo che superi anche i più recenti modelli di coordinamento previsti dal Testo Unico. Le singole Regioni potranno, nella loro autonomia, stipulare convenzioni con lo Stato affinché le funzioni ispettive centrali integrino la loro programmazione con quella del servizio sanitario regionale verificando in tutti i comparti vigilati non solo i profili di propria competenza ma anche quelli relativi al rispetto delle norme in materia di sicurezza comunicandone i risultati. Tra le priorità della azione di governo per liberare il lavoro dalla illegalità e dal pericolo ricordiamo, infine, lo sforzo per procedere alla completa e puntuale implementazione del Testo Unico di sicurezza e tutela della salute nei luoghi di lavoro attraverso la normativa settoriale e di dettaglio. Fondamentale sarà la definitiva attivazione del sistema di governo, su base tripartita, delle attività in materia di salute e sicurezza sul lavoro per la individuazione di indirizzi di attività e interpretazioni uniformi sul territorio nazionale. In tal modo sarà possibile contare su un sistema che contempla il continuo confronto dei Ministeri e delle amministrazioni centrali competenti in materia con le parti sociali garantendo che le scelte operate vengano discusse a livello nazionale, coerentemente applicate a livello settoriale e/o territoriale, valutate quanto alla loro efficacia e, all’esito di tale valutazione, eventualmente corrette. Elemento centrale di tale sistema tripartito sarà il sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro. Le amministrazioni potranno condividere i rispettivi patrimoni informativi, confrontandoli tra loro, sottoponendoli alle parti sociali e rendendo i rispettivi interventi maggiormente coerenti con una strategia nazionale della prevenzione e, al contempo, più economici in quanto più efficaci. Le informazioni raccolte saranno imprescindibile elemento per la definizione di linee strategiche comuni in materia di salute e sicurezza, per la loro diffusione a livello territoriale e la condivisione con le parti sociali.
L’integrazione di ISPESL e IPSEMA in INAIL – superando la prospettiva, limitativa, della mera conferenza di servizi e del coordinamento di autonome entità istituzionali – potrà consentire la costituzione di un polo nazionale strategico per la gestione, in chiave moderna e integrata, della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro attraverso l’integrazione delle competenze, l’unicità di impostazione delle strategie di sviluppo, la convergenza della definizione della programmazione e pianificazione, la tempestività dei processi decisionali, la semplificazione del modello operativo, l’ottimizzazione e il potenziamento dell’apparato organizzativo/funzionale, sia a livello centrale che territoriale. Si garantirà infine, senza soluzioni di continuità rispetto agli anni 2008 e 2009, il sostegno alle attività promozionali per la salute e sicurezza sul lavoro e si rafforzerà il coordinamento con il Ministero della istruzione in modo da coinvolgere le scuole di ogni ordine e grado relativamente alla diffusione di una nuova cultura della sicurezza. 2. Liberare il lavoro dal centralismo regolatorio Maggiori e migliori posti di lavoro non si creano per decreto. Le leggi possono contribuire a un contesto favorevole per la competitività delle imprese e sostenere la loro naturale propensione ad assumere e investire in modo stabile sulle persone. Ma possono anche determinare un effetto contrario, comprimendo le potenzialità del sistema produttivo e le istanze di inclusione, soprattutto là dove non siano capaci di interpretare e governare gli imponenti cambiamenti intervenuti nella società e nel lavoro. L’attuale centralismo regolatorio riflette assetti di produzione propri della vecchia economia. Dominati dalla grande fabbrica industriale. Con modelli di organizzazione del lavoro standardizzati e rigidi. Con un perimetro aziendale ben definito per struttura e composizione della manodopera impiegata e per localizzazione territoriale. È questa l’immagine del lavoro riflessa nello “Statuto dei lavoratori” del 1970. Una legge storica che ha portato nelle fabbriche i diritti fondamentali della persona sanciti nella Costituzione e promosso la presenza sindacale in azienda. Una legge che, tuttavia, trova oggi applicazione per una parte limitata e sempre più minoritaria del mondo del lavoro. Quarant’anni di Statuto evidenziano tutta la distanza che separa l’impianto di questa legge dai nuovi modelli di produzione e di organizzazione del lavoro e dalla recente evoluzione di un mercato del lavoro sempre più terziarizzato e plurale. Con forza sempre meno radicata presso la stessa azienda. Con nuove istanze di conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro dettati dal massiccio – ma non ancora soddisfacente – ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Con nuovi e crescenti dualismi che ampliano il divario tra chi partecipa al mercato del lavoro istituzionale, sindacalmente presidiato e tutelato, e chi invece è confinato in una economia informale governata da rapporti di lavori grigi che via via degradano nel sommerso totale. Al lavoro stabile e per una intera carriera si contrappongono oggi sempre più frequenti transizioni occupazionali e professionali che richiedono diritti e nuove tutele anche per l’inoccupato, il disoccupato e quanti sono coinvolti in processi di riconversione e ristrutturazione aziendale. I mutamenti del mondo del lavoro implicano l’insorgere di esigenze che spiazzano un sistema di tutele ingessato – perché fatto di norme rigide applicabili in modo indifferenziato a tutti i datori di lavoro di qualunque territorio o settore produttivo – suggerendo l’introduzione di assetti regolatori maggiormente duttili e la definizione di diritti universali post-moderni. La sfida dello “Statuto dei lavoratori” era ed è, ancora oggi, tutta qui. Nella capacità di superare una mentalità di mera conservazione dell’esistente. Perché uno statuto del lavoro rigido, ancorato ai modelli e alle logiche di un passato che non c’è più, tradirebbe la sua funzione storica che è ancora oggi pienamente attuale. Quella cioè di approntare, al di là delle tecniche e delle norme di dettaglio di volta in volta adottate, un sistema di tutele moderne e mobili tali da consentire il pieno sviluppo della persona attraverso il lavoro e nel lavoro. L’economia della conoscenza deve poter contare su lavoratori il cui potere contrattuale poggi sulle qualità e competenze professionali, sulla capacità di adattamento e sui meriti piuttosto che su di un sistema di garanzie tanto rigide quanto ineffettive. Questa è la vera stabilità del lavoro. Una stabilità basata su un sistema di convenienze reciproche più che su formalistiche imposizioni di legge che alimentano un imponente contenzioso (individuale e collettivo) e che nulla valgono quando un posto di lavoro si consuma. L’istanza di cambiamento non può essere affidata a soluzioni semplicistiche, che ipotizzano di ricondurre forzatamente la multiforme e dinamica realtà del lavoro in un unico schema contrattuale, il c.d. contratto unico. Sarebbe questo un modello di regolazione dei rapporti di lavoro ancora più rigido di quelli del passato tanto è vero che non è stato ipotizzato neppure nell’epoca in cui imperava l’impresa fordista. È illusorio pensare di poter cristallizzare il dinamismo dei nuovi lavori in rigide categorie giuridiche unificanti solo sulla carta, ma lontane da una realtà che, per essere governata e non rifuggire nell’economia sommersa, deve essere sempre meno eterodiretta dal legislatore statale e sempre più affidata a logiche sussidiarie e al libero dispiegarsi della contrattazione collettiva. Un moderno quadro regolatorio delle relazioni di lavoro, attento alla centralità della persona e alla effettività delle tutele, deve porsi quali obiettivi sostanziali i tre fondamentali diritti che dovranno essere garantiti a ogni persona che lavora, indipendentemente da formalismi e qualificazioni giuridiche. Il diritto ad ambienti di lavoro sicuri, innanzitutto. E anche il diritto a un compenso equo non solo in quanto idoneo a garantire una esistenza libera e dignitosa ma anche perché proporzionato ai risultati della impresa. A ciò si dovrà aggiungere un diritto di nuova generazione ancora poco effettivo nel nostro Paese: quello all’incremento delle conoscenze e delle competenze lungo tutto l’arco della vita quale vera garanzia di stabilità occupazionale e di espressione della propria personalità. Gli stessi diritti – e ancor più le tutele che li sostengono – possono essere solo in parte generalizzati e sanzionabili mentre richiedono contenuti regolatori promozionali che, soprattutto la contrattazione collettiva e gli enti bilaterali, potranno esprimere nelle diverse condizioni di settore, di territorio e di azienda.
Lo “Statuto dei lavori” ipotizzato da Marco Biagi, oggetto di un disegno di legge delega che il Governo presenterà in Parlamento, costituirà la rinnovata cornice dei diritti inderogabili di legge entro la quale le tutele potranno trovare una modulazione più moderna, prodotta in parte dalla legge stessa e poi flessibilmente derogabile o integrabile dalla contrattazione nei vari contesti e nelle dimensioni in cui si realizza. Il nuovo Statuto sollecita esplicitamente la sussidiarietà orizzontale verso le organizzazioni di tutela e rappresentanza dei lavoratori e degli imprenditori come la sussidiarietà verticale verso i livelli più prossimi al rapporto di lavoro. La flessibilità negoziata dalle parti sociali appare idonea a realizzare non solo la protezione del lavoratore in termini più aderenti alle diverse condizioni soggettive e di contesto, ma anche la reciproca adattabilità tra le esigenze delle imprese e quelle dei loro collaboratori. E in questo modo essa appare capace di perseguire il bene comune della crescita e della produttività del lavoro con occupazione anche nelle realtà territoriali più difficili, con riferimento alle componenti sociali più deboli o più svantaggiate, in favore delle più coraggiose iniziative imprenditoriali. La stessa organizzazione di forme aggiuntive di integrazione del reddito sulla base di contribuzioni volontarie – anche per le collaborazioni autonome – si può combinare efficacemente con le tutele attive della formazione e del ricollocamento previste nell’ambito degli organismi bilaterali sulla base delle sperimentazioni già effettuate, dall’artigianato ai fondi interprofessionali. Sarà necessaria una adeguata massa critica di lavoratori e di imprese aderenti per poter realizzare una diffusa articolazione territoriale perché anche per gli enti bilaterali vale la regola per cui solo la prossimità mette al riparo dai pericoli di autoreferenzialità. L’arretramento del centralismo regolatorio consentirà di sviluppare le esperienze e i compiti degli organismi bilaterali territoriali per una gestione condivisa dei mercati locali del lavoro e dei servizi che danno valore alla persona quali sicurezza, formazione, integrazione del reddito, collocamento, certificazione del contratto di lavoro. L’impianto plurale e sussidiario dello “Statuto dei lavori” affida alla bilateralità e alla contrattazione collettiva, così come congegnata dalla recente riforma degli assetti contrattuali e sostenuta dalle misure di decontribuzione e defiscalizzazione, l’obiettivo di incentivare la produttività del lavoro e il connesso incremento delle retribuzioni, diretto o indiretto, attraverso servizi integrativi e tutele aggiuntive di tipo promozionale. La maggiore attenzione della contrattazione collettiva al sostegno dei servizi rivolti a incrementare la dotazione di forme welfare negoziale e di protezione sociale dei lavoratori è destinata peraltro a sviluppare ulteriormente anche gli enti bilaterali nazionali dedicati alla previdenza complementare, alla assistenza sanitaria, agli oneri per la non autosufficienza.
3. Liberare il lavoro dalla incompetenza L’Italia, più di altri Paesi, registra un marcato disallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro. Colpa della mancanza di una robusta infrastruttura di moderni operatori del mercato del lavoro, pubblici e privati, in grado di mettere in contatto lavoratori e imprese. Colpa anche della totale inadeguatezza del sistema di formazione e, con particolare riguardo ai giovani, dei percorsi di transizione e raccordo tra scuola, università e mercato del lavoro. Colpa soprattutto del paradigma della separazione tra formazione e lavoro, tra istruzione e formazione, tra studio e lavoro, tra teoria e pratica, tra competenze culturali e competenze professionali, tra scuola e impresa che nega ideologicamente l’alternanza formativa e l’integrazione circolare tra questi diversi momenti. Eppure è l’effettivo accesso alle occasioni di apprendimento e di sviluppo e valorizzazione delle competenze – indicato nello “Statuto dei lavori” alla stregua di uno dei tre diritti fondamentali della persona in ambito lavorativo – che assume oggi una rilevanza strategica per la autopromozione della persona e per la competitività del sistema delle imprese in un mercato del lavoro ove la natura delle occupazioni cambia velocemente, alcune scompaiono e altre si creano. Con l’accordo tra Governo, Regioni e parti sociali del 17 febbraio 2010 abbiamo condiviso innovative linee guida per la formazione quale principale leva per l’adattabilità e la occupabilità delle persone. Si tratta di un patto per il cambiamento dei criteri attuali di finanziamento e della stessa concezione delle iniziative formative sulla base di tre presupposti:
1) il lavoro è parte essenziale di tutto il percorso educativo, formativo e professionale di una persona;
2) l’impresa e l’ambiente produttivo sono il contesto più idoneo per lo sviluppo delle professionalità;
3) la certificazione formale deve interessare la reale verifica delle competenze di una persona, maturate anche attraverso l’esperienza e il lavoro, a prescindere dai corsi di formazione frequentati che possono al più costituire un mezzo e non la prova per l’acquisizione e lo sviluppo di esse.
L’accordo, che implementeremo con le Regioni e le parti sociali, consentirà di cambiare il paradigma della formazione spostando l’attenzione dalle procedure ai risultati e, prima ancora, al destinatario. Piuttosto che concentrarsi sui fattori formali e burocratici dei percorsi formativi (durata, procedure, istituzioni e metodi pedagogici che portano a una qualifica), l’attenzione sarà diretta alle conoscenze, competenze o abilità che la persona ha acquisito ed è in grado di dimostrare. Ciò vale anche per i sistemi di istruzione e formazione che – come già declinato nel piano Italia 2020 per l’occupabilità dei giovani – devono adattarsi ai bisogni individuali. Rafforzare l’integrazione con il mercato del lavoro. Rendere trasparenti e mobili le qualifiche. Migliorare il riconoscimento dell’apprendimento non formale e di quello informale. Rendere trasparenti e accessibili i curricula a imprese e operatori del mercato del lavoro.
L’accento sull’apprendimento e sulle competenze, in questa nuova ampia accezione, sollecita la consapevolezza che al cuore delle politiche per la occupabilità sia necessario sviluppare ampi sistemi integrati di qualifiche, che non comprendano solo quelle legate ai percorsi formali e ai titoli di studio, ma siano anzi sempre più in sintonia con il mercato del lavoro, i sistemi di inquadramento professionale e le declaratorie contemplate dai contratti collettivi. Centrale, per contrastare la diffusa incompetenza e recuperare il disallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro, è la valenza educativa e formativa del lavoro – di tutte le esperienze di lavoro – che si esalta attraverso una integrazione sostanziale tra i sistemi educativi e formativi e il mercato del lavoro valorizzando modelli di apprendimento in assetto lavorativo (come il contratto di apprendistato) che possono consentire non soltanto la professionalizzazione (l’apprendimento di un mestiere), ma anche la acquisizione di titoli di studio di livello secondario o terziario compresi i dottorati di ricerca.
Le azioni concordate, e che siamo impegnati a implementare rapidamente, sono:
1) una rilevazione tempestiva su base territoriale e settoriale dei fabbisogni professionali di competenze sostenuta da una cabina di regia nazionale, a partire da un ampliamento su base provinciale del programma Excelsior, e lo sviluppo dei servizi di placement nelle università e scuole superiori;
2) l’impiego diffuso del metodo di apprendimento “per competenze” in situazione lavorativa in luogo di quello “per discipline separate” in situazione scolastica, la rivalutazione dell’istruzione-formazione tecnico-professionale, il coinvolgimento delle imprese, singole o associate, nelle attività educative e formative;
3) l’accesso degli inoccupati a tirocini di inserimento, il rilancio dei corsi di istruzione e formazione tecnico superiore (IFTS) e dei contratti di apprendistato della legge Biagi, privilegiando l’apprendimento nella impresa, la rivisitazione degli stage;
4) il rientro anticipato dei cassaintegrati sulla base di accordi di formazione e lavoro;
5) l’accreditamento di “valutatori” indipendenti in grado di certificare le effettive competenze dei lavoratori comunque acquisite, in modo da rafforzare la trasparenza e la migliore informazione nel mercato del lavoro, accrescere la capacità di offerta sul mercato del lavoro, migliorare l’incontro tra domanda e offerta e stimolare la ricerca delle più utili attività formative.
Per tutte le azioni indicate il ruolo sussidiario delle imprese, delle associazioni datoriali e sindacali e degli enti bilaterali appare essenziale e senza dubbio più efficace delle funzioni pubbliche che, comunque, dovranno essere potenziate e riqualificate a partire dai centri per l’impiego, in sinergia con le agenzie private per il lavoro, nell’ambito di una più marcata collaborazione tra Stato, Regioni e Province. Sebbene di carattere emergenziale, e circoscritto al 2010, l’accordo sulle nuove linee guida per la formazione assume connotati particolarmente innovativi anche per la modernizzazione del nostro sistema di relazioni industriali e di lavoro. Sono state poste le premesse per un nuovo diritto del lavoro. Un diritto delle risorse umane che renda plausibile l’idea di transitare verso una concezione più sostanzialista delle relazioni di lavoro e dei rapporti di produzione. Come già previsto nel piano di azione Italia 2020, una area di azione specifica sarà dedicata ai giovani nella convinzione – suffragata dai benchmark internazionali – che la difficile transizione dal mondo della istruzione e della formazione a quello del lavoro sia una delle principali criticità su cui intervenire per contrastare i crescenti tassi di disoccupazione, la dispersione scolastica e i bassi tassi di occupazione giovanili. La riduzione dei tempi di transizione generazionale dalla scuola alla vita professionale e il contenimento dei fenomeni di job mismatch richiedono un insieme di interventi integrati e strutturati di politiche attive del lavoro che rendano più fluidi e trasparenti i meccanismi che regolano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro anticipando il contatto tra lo studente e l’impresa lungo tutto il percorso scolastico e formativo e quello universitario. È importante potenziare la rete degli operatori, autorizzati o accreditati, presenti sul mercato del lavoro, contrastare i canali informali che operano al di fuori del sistema, realizzare compiutamente, a livello regionale e nazionale, servizi istituzionali di accesso nella rete alle imprese che domandano e ai lavoratori che offrono lavoro. Ancor più decisivo è che attività di orientamento al lavoro e di collegamento con l’economia del territorio si sviluppino direttamente all’interno degli istituti scolastici e delle università, come previsto dalla Legge Biagi, sfruttando a dovere la posizione privilegiata degli istituti di istruzione e formazione nell’indicare alle aziende i giovani in possesso del curriculum scolastico e universitario più adatto al profilo ricercato. Nello stesso tempo, questa attività può rappresentare per le scuole e le università uno straordinario sensore della qualità e coerenza della loro offerta formativa rispetto alle richieste del tessuto produttivo circostante e degli studenti. Moderne leve di placement possono essere, in questa prospettiva, anche i percorsi educativi in alternanza e in apprendistato che consentono, con esperienza pratica e in un assetto produttivo autentico, il conseguimento di un titolo di studio. Come nel caso dell’apprendistato per l’esercizio del diritto-dovere di istruzione e formazione, che consente l’acquisizione di una qualifica del secondo ciclo. E ancor di più come nel caso dell’apprendistato di alta formazione che è indirizzato sia ai percorsi tecnico-professionali sia alla acquisizione di un titolo universitario e persino di un dottorato di ricerca. Le criticità dell’incerto riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia richiedono una cabina di regia a livello nazionale che consenta, secondo i principi della leale cooperazione, intese largamente condivise e idonee a rendere operativi strumenti che, come appunto l’apprendistato, non hanno ancora trovato un assetto normativo e istituzionale soddisfacente penalizzando giovani e imprese nella ricerca di una reciproca adattabilità e qualificazione. La buona competenza delle lavoratrici e dei lavoratori sostiene i nuovi percorsi della crescita economica e garantisce a ciascuna persona la possibilità di esprimere il proprio potenziale, di essere utile a sé e agli altri.